Benecomune.net: Luglio/agosto 2017 Valore lavoro La Gig economy può rilanciare i territori senza industria?

LA GIG ECONOMY PUÒ RILANCIARE I TERRITORI SENZA INDUSTRIA?

La rivoluzione tecnologica offre straordinarie opportunità come il rilancio dell’occupazione nei territori senza industria ma, per trarne benefici, bisogna avere la capacità di governala fuori dagli schemi novecenteschi. La tutela dei lavoratori, in particolare, non passa più per i luoghi aziendali e i territori in cui il lavoro è svolto ma segue il lavoratore ovunque egli sia
La rivoluzione tecnologica non è semplicemente “distruptive” come vogliono i nuovi luddisti ma, anzi, un‘opportunità per diverse ragioni.

Una di queste è che essa è in grado di creare non solo nuova occupazione perché, come oramai è noto, nasceranno nuovi lavori ma anche e soprattutto di creare nuova occupazione nei territori deindustrializzati, generalmente al Sud, dove è elevato il tasso di disoccupazione.

Deindustrializzati o per ragioni storiche o perché vittime della delocalizzazione produttiva in conseguenza della globalizzazione (c.d. offshoring). Come ricorda il rapporto di Eurofound “Living and working in Europe”, solo nel vecchio continente, tale delocalizzazione ha causato la scomparsa di un posto di lavoro su dieci nel settore manifatturiero, uno su venti negli altri settori.

In questa prospettiva, anche se solo per sommi capi, vuole tracciarsi la dimensione del fenomeno per ipotizzare, poi, soluzioni in grado di cogliere questa sfida della rivoluzione tecnologica e rassegnare, infine, alcune conclusioni.

Andando con ordine, per cogliere la dimensione del fenomeno, è sufficiente guardare al crowd work, ovvero una forma di lavoro grazie a cui, le imprese (c.d. crowdsourcer), insediate in una qualsiasi parte del mondo, hanno la possibilità di richiedere lo svolgimento di un attività di lavoro alla “folla” di persone (appunto, crowd) connesse, da una qualsiasi altra parte del mondo – e quindi anche dalla zone deindustrializzate - alla piattaforma digitale, caricata in rete, che intermedia tra questa folla e i committenti.

Il crowd work registra una crescita esponenziale. Secondo alcune stime (Huws 2016, p. 27), nel 2020, in America almeno l’11 % dei lavoratori lo sperimenterà mentre il rapporto della Banca Mondiale, intitolato The Global Opportunity in Online Outsourcing, stima un fatturato da esso derivante di 25 miliardi di dollari nel 2020.

Nel 2015, il numero di piattaforme digitali di crowdsourcing nel mondo ha raggiunto le 2.300 unità. Nello stesso anno, tra queste piattaforme, AMT ha dichiarato 500.000 iscritti di 190 paesi diversi, Top Coder (con sede precisamente in Massachusetts) 753.911, Upwork 8 milioni da 180 nazioni, Freelancer 14,5 milioni con 7,5 milioni di progetti mentre Twago 263.715 iscritti con 66.683 progetti (come confermato dagli studi di Pooler e di Strube).

Secondo i dati di CIPD, un’importante società inglese di consulenza manageriale, nel Regno Unito, la più alta percentuale di gig workers, la categoria cui appartengono i crowd workers, hanno tra i 18 e il 29 anni e sono per la gran parte uomini.

Se così stanno le cose, quanto alle soluzioni, si impone di ribaltare il paradigma secondo cui i lavoratori meritevoli di tutela sono soltanto quelli che svolgono la loro attività all’interno dei confini dell’azienda o, comunque, nell’ambito della tradizionale organizzazione di impresa nell’ottica di assicurare tutele anche ai lavoratori, alla stregua dei gig workers, che, come visto, svolgono la loro attività al di fuori di questi schemi.

Tale paradigma è, infatti, figlio di quella impostazione del lavoro fordista e post- fordista, che la rivoluzione tecnologica è in grado di demolire, secondo cui l’occupazione c’è nella misura in cui l’impresa è strutturata secondo un ordine gerarchico, è insediata in un determinato territorio ed è titolare del potere di eterodirezione e/o etero-organizzazione.

In tal senso, è significativa la nota direttiva n. 2003/88/CE “concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro” secondo cui “il lavoratore è al lavoro” e quindi merita tutela se e quando è presente nello stabilimento produttivo cioè nel “luogo determinato dal datore di lavoro”. La direttiva, non a caso, è stata tradotta in francese nel senso che “le travailleur est au travail” e non “le travailleur travaille” e in spagnolo nel senso che “el trabajador permanezca en el trabajo” e non “el trabajador trabaja”.

Coerentemente con questa impostazione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente sottolineato che un fattore decisivo per qualificare come tale una prestazione lavorativa è che il lavoratore è costretto ad essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro e quindi in azienda.

Nella prospettiva di ribaltare il paradigma del lavoro novecentesco, nel mese di luglio 2017, il rapporto Good Work: The Taylor Review of Modern Working Practices, ha proposto al legislatore di modificare le definizioni di employee, lavoratore dipendente protetto, e quella di worker, qualsiasi altro lavoratore privo delle protezioni dell’employee, contenute nell’Employment Rights Act del 1996.

La proposta tende ad assimilare le tutele delle due categorie di lavoratori ovvero di garantire tutela ai lavoratori in quanto tali e non in quanto dipendenti, autonomi, o gig workers perché, come si legge nel rapporto, “all employees are workers, but not all workers are employees”.

Per concludere, la rivoluzione tecnologica offre straordinarie opportunità come il rilancio dell’occupazione nei territori senza industria ma, per trarne benefici, bisogna avere la capacità di governala fuori dagli schemi novecenteschi.

La tutela dei lavoratori, in particolare, non passa più per i luoghi aziendali e i territori in cui il lavoro è svolto e per le modalità del suo svolgimento ma segue il lavoratore ovunque egli sia, a qualunque categoria egli appartenga e in qualsiasi modo metta a disposizione le proprie energie.

Il lavoro, in altri termini, come ebbe a dire il card. Martini a Capiago durante l’incontro del 6 marzo 1999 presso la Scuola di formazione per l’impegno sociale e politico, è esso stesso “un primo luogo in cui esprimere la dignità della persona umana”. Pertanto, è necessario “uno sforzo anche di creatività intellettuale affinché tali processi, in qualche modo inevitabili, non producano fenomeni lesivi della dignità delle persone, del loro diritto al lavoro, della possibilità di lavoro, delle condizioni di lavoro.”

Ciro Cafiero - 03/07/2017

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